La responsabilità medica
Si parla di responsabilità medica ogniqualvolta vi sia un nesso di causalità fra un danno alla salute psicofisica del paziente e la condotta dell’operatore sanitario che assuma i caratteri della colpa.
“Chi esercita un’attività sanitaria è responsabile professionalmente per i danni derivati al paziente da errori, omissioni o violazione degli obblighi inerenti l’attività stessa.”
Avv. Gaetano Scalise
l’esercizio del Diritto alla salute
Tale definizione fa emergere in tutta la sua centralità il delicato rapporto tra l’esercizio del diritto alla salute da parte del cittadino e l’espressione della professione medico-sanitaria, vista in tutte le sue possibili declinazioni: infatti che sia svolta autonomamente o in equipe, che intervenga su una determinata patologia o sulla sua possibile insorgenza, detta professione pone sempre come fine ultimo il processo di guarigione dalla malattia.
Pertanto il concetto di responsabilità medica si combina necessariamente con quel complesso di prestazioni mediche (diagnostiche, preventive, ospedaliere, terapeutiche, chirurgiche, estetiche, assistenziali, ecc.) cui un paziente è destinatario e che vengono eseguite da medici e personale con diversificate qualificazioni, quali infermieri, assistenti sanitari, tecnici di radiologia medica e tecnici di riabilitazione, dando potenzialmente luogo a questioni giuridicamente rilevanti nei casi in cui venga cagionato un danno a colui il quale è sottoposto alle cure.
La casistica degli interventi medico-sanitari è dunque ampia e finalizzata alla ricerca della metodica corretta in grado di lenire la condizione di un malato ovvero a prevenire l’insorgenza di possibili patologie.
Ovviamente, quando gli effetti conseguiti non sono quelli sperati è possibile che ai sanitari possano essere attribuiti errori diagnostici, terapeutici o di omessa vigilanza ponendo, di conseguenza, questioni di responsabilità (penale o civile) per l’aggravamento della situazione del paziente o addirittura per la sua morte.
L’ultimo intervento legislativo in materia, la L. n. 24/2017 (legge Gelli-Bianco), riflette l’esigenza dello Stato di tracciare con maggiore determinatezza i confini della responsabilità professionale in ambito sanitario, fornendo dei punti di riferimento certi e sicuri per i medici, sempre meno tranquilli nella gestione della quotidiana attività professionale, anche al fine di eliminare ovvero limitare il più possibile il fenomeno della c.d. medicina difensiva e orientare la magistratura nella valutazione delle condotte dei medici.
Un obiettivo ad oggi non ancora pienamente raggiunto che ha spinto la giurisprudenza di legittimità ad intervenire più volte, sostituendosi di fatto al legislatore:
- per colmare le lacune delle formulazioni troppo generiche delle norme
- per fornire una interpretazione puntuale per quelle disposizioni troppo specifiche e poco attuabili ai casi concreti
- per chiarire quale sia la legge più favorevole da applicare ai casi concreti sebbene la legge di riforma abbia avuto il pregio di adattare
Gli elementi della responsabilità medica
Prima di trattare i vari profili che interessano questa materia, è necessario definire il concetto di “malpractice“, al fine di meglio individuare, in via generale, gli elementi che concorrono a determinare una non corretta pratica sanitaria ed i suoi possibili effetti.
A questo proposito si definisce malpractice quella condotta clinica che denota negligenza del medico con conseguente danno biologico o psicologico del malato imputabile alla mancata osservanza di riconosciuti e comprovati standard di qualità assistenziale.
Va ricordato ovviamente che l’errore del medico può essere compiuto nella fase diagnostica, in quella prognostica e nella fase terapeutica.
L’errore diagnostico consiste nello sbagliato inquadramento diagnostico della patologia, a cominciare ad esempio dalla imprecisa raccolta dei dati anamnestici, laddove invece doveva essere esattamente eseguita e valorizzata per il completamento del quadro clinico. Ad esempio: il paziente è allergico a varie sostanze ma il medico dimentica di annotarle o specificarle, predisponendo superficialmente una terapia proprio sulla base di quei principi attivi.
Altro caso di errore diagnostico è costituito dalla sottostima (o addirittura dal mancato rilievo) di una data sintomatologia in conseguenza della quale si producono effetti dannosi sul paziente.
Un aspetto affine e non meno grave è quello del ritardo diagnostico. In questo caso il medico differisce l’esecuzione di necessarie e indispensabili terapie, in tal modo cagionando un danno al paziente.
Cosa diversa è invece l’errore prognostico che scaturisce da un giudizio previsionale sul decorso e sull’esito di un determinato quadro clinico che si rivela poi sbagliato. Spesso è correlato all’errore diagnostico.
l’errore in fase terapeutica
può manifestarsi al momento della scelta del trattamento sanitario o a quello della sua esecuzione. Infatti può verificarsi l’ipotesi in cui, pur in presenza di una corretta diagnosi e di un percorso terapeutico congruamente definito, si sbagli l’esecuzione dell’intervento chirurgico per imperizia o negligenza.
Risulta quindi in tutta la sua evidenza, nella responsabilità medica, l’incidenza della colpa e del nesso causale tra la condotta posta in essere e l’evento dannoso.
La colpa
In primo luogo è opportuno osservare come a seconda dei diversi ambiti si possano avere:
- una responsabilità morale: in cui è facile ravvisare la sospensione di principi etici, non meno visibili ma relegati ad un interiore senso valutativo;
- una responsabilità amministrativo-disciplinare: quando sono violati obblighi relativi al servizio prestato, ai doveri d’ufficio o a regole deontologiche con la conseguente comminatoria di sanzioni dell’ente di appartenenza o dell’Ordine Professionale;
- una responsabilità giuridica nei casi in cui ci sia la violazione di una norma penale o civile.
A questo ultimo proposito la responsabilità colposa potrà dirsi giuridicamente rilevante allorquando si riferisca alle possibili conseguenze, considerate da un punto di vista penale o civile a seconda dei casi, scaturenti da un’illecita condotta (commissiva od omissiva), posta in essere da un soggetto in violazione di una norma cautelare.
In particolare, sotto un profilo prettamente penalistico, qualora a seguito della propria condotta colposa venga cagionata una lesione personale o la morte della persona assistita, il medico (o il sanitario in genere), è chiamato a rispondere del suo comportamento professionale sulla scorta del concetto di colpa così come definito dall’art. 43 del codice penale in base al quale deve ritenersi colposo (o contro l’intenzione) un evento che, anche se previsto, non è voluto dall’agente ma che si verifica a causa di negligenza, imprudenza o imperizia oppure per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.
La colpa è quindi generica se si verificano le seguenti condizioni:
- negligenza: si riferisce alla superficialità, trascuratezza, disattenzione. Esempi tipici possono riguardare il medico che prescrive un farmaco al posto di un altro o del chirurgo che non si accorge della mancata rimozione di corpi estranei in un campo operatorio;
- imprudenza: attribuibile alla condotta avventata o temeraria del medico che, pur consapevole dei rischi per il paziente, decide comunque di procedere con una determinata pratica;
- imperizia: coincidente con la scarsa preparazione professionale per incapacità proprie, insufficienti conoscenze tecniche o inesperienza specifica.
Diversamente, si parlerà di colpa specifica se la violazione ha ad oggetto l’inosservanza di norme che il medico non poteva ignorare e che era tenuto ad osservare, quali espressioni di legge o di un’autorità pubblica/gerarchica, disciplinanti specifiche attività o il corretto svolgimento delle procedure sanitarie.
Il nesso di causalità
L’accertamento di una condotta colposa non è però autonomamente sufficiente a ritenere giuridicamente responsabile il sanitario. E’ altresì necessario che venga individuato un preciso legame, un nesso eziologico tra errore commesso e danno subito dal paziente, perché la responsabilità medica possa qualificarsi come diretta conseguenza di una condotta colposa.
Su un piano strettamente tecnico la causalità tra condotta ed evento non è sempre pacificamente lineare per la complessità dei fenomeni clinici, spesso condizionati da variabilità soggettive o da un decorso atipico, senza contare che determinate patologie, pur opportunamente trattate, possono comunque presentare complicanze proprie e non dipendenti dalla condotta medica. È il caso ad esempio delle terapie dai possibili effetti collaterali “iatrogeni” che sono direttamente collegati alla terapia effettuata, ma non riconducibili ad errore medico.
Infatti, a parte la varietà dei comportamenti medici commissivi anche un’omissione o un ritardo diagnostico-terapeutico può provocare un danno al paziente con conseguenze che una tempestiva esecuzione avrebbe evitato o reso meno gravi. In tali casi l’accertamento del nesso causale appare più complicato, perché occorre specularmente stabilire quale incidenza il trattamento doveroso omesso o ritardato avrebbe avuto nel preservare la salute del paziente, in considerazione di componenti imprescindibili, quali ad esempio la variabilità di decorso di una certa patologia che, per le sue caratteristiche, potrebbe comunque resistere ad una adeguata e tempestiva attività medica.
Ciò posto spesso risulta ardua una pronuncia in termini di certezza assoluta da parte dello stesso medico-legale (Consulente Tecnico o perito) che debba esprimersi in ordine all’operato dei colleghi coinvolti nell’ambito di un processo penale o civile. Tale inevitabile difficoltà valutativa ha portato dunque all’applicazione del meno rigoroso criterio statistico-probabilistico con il quale in ogni caso si richiede, soprattutto in materia di colpa omissiva, l’accertamento di un legame eziologico tra condotta ed evento con un grado di probabilità molto elevato, o addirittura prossimo alla certezza.
Detto altrimenti, il giudizio sul nesso causale postula un obbligatorio riferimento a consolidate leggi scientifiche e a criteri di attendibile probabilità statistica, da rapportare al caso concreto per stabilire se la condotta omessa, ove correttamente compiuta, avrebbe evitato l’evento dannoso.
In ogni caso occorre rammentare come una penale responsabilità del medico per comportamenti omissivi sia da escludere laddove non sussistano, siano contraddittori o incerti gli elementi probatori e ricorra invece un ragionevole dubbio che, in base all’evidenza disponibile, risulti fondato su specifiche risultanze.
Sotto altro profilo, il nesso eziologico tra condotta ed evento, se come detto può non sussistere in concreto, può al pari essere interrotto dal c.d. fattore eccezionale ed imprevedibile. A questo proposito norma di riferimento è l’art. 41, comma 2, c.p. che stabilisce: “le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento”. In realtà, questa concezione che qualifica come necessario il ricorrere di un “fattore eccezionale” al fine di interrompere il nesso causale, è stata di recente superata da quel filone giurisprudenziale che muove dall’analisi comparativa delle diverse aree di rischio in cui si colloca l’evento lesivo, rispetto all’ambito di tutela riferibile a ciascun garante.
Trattasi del c.d. teoria del rischio.
Da ultimo, occorre porre un breve cenno alla problematica inerente all’interruzione del nesso causale nel caso di negligenze sopravvenute da parte di operatori sanitari, ovvero in quelle ipotesi in cui, alla catena eziologica che ha portato alla morte/lesione della persona offesa/paziente, si aggiungano successive condotte colpose con cui vengono omessi gli interventi necessari a evitare il decesso/lesione della vittima.
Sul punto, si è registrata una scissione giurisprudenziale della problematica in due questioni separate e distinte, l’una riferibile all’intervento di un fattore di interruzione del nesso causale ex art. 41, secondo comma c.p., e l’altra al c.d. principio di affidamento, ovvero il generale obbligo cautelare di prevenire l’inosservanza delle regole e delle leges artis da parte degli altri soggetti.
Infine, con la legge 24 del 2017 cui si è fatto già cenno, è stata introdotta una causa di non punibilità all’art. 590 sexies, comma 2, c.p. in base alla quale “qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”.
Volendo operare una sintesi, a seguito dell’intervento delle SS.UU. (sentenza Mariotti, Cass. Pen., SS.UU., n. 8770/2018) tale comma è stato interpretato nel senso che il medico sarà chiamato a rispondere per imperizia, sia grave che lieve, ove manchino o siano state individuate o scelte erroneamente le linee guida o buone pratiche clinico assistenziali.
Al contrario, il sanitario risponderà solo per imperizia grave nel caso in cui l’errore nell’esecuzione sia accompagnato dalla corretta scelta e dal rispetto delle linee guida, che risultino adatte al caso concreto.
La responsabilità civile del medico: contrattuale o extracontrattuale?
Seguendo un definizione “classica” la responsabilità civile può essere extracontrattuale per fatto illecito (“qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”, art. 2043 c.c.) o contrattuale, quando a norma dell’art. 1218 c.c. la mancata o inesatta prestazione dovuta origina il risarcimento del danno in assenza di una prova a connotare l’impossibilità della prestazione per una causa non imputabile al soggetto agente.
Si parla di responsabilità contrattuale nei casi di preesistenza di un rapporto di tipo obbligatorio, costituito ad esempio per il medico da un contratto di lavoro subordinato oppure da un contratto d’opera intellettuale.
La responsabilità extracontrattuale invece non prevede il presupposto della contrattualità con il soggetto assistito: l’esempio classico è quello del medico che interviene su un paziente in stato di incoscienza con il quale non ha certo potuto stipulare nell’imminenza dell’intervento alcun tipo di contratto, sorgendo in questi casi l’illecito dalla violazione del principio di carattere generale del “neminem laedere”.
Pertanto mentre nella responsabilità contrattuale l’onere della prova ricade, come accennato, sul debitore che è tenuto a dimostrare la riconducibilità dell’inadempienza ad una causa a lui non imputabile, nella responsabilità extracontrattuale è il danneggiato che deve provare l’esistenza dell’illecito, della condotta colpevole, dell’evento di danno e del nesso causale. E’ bene ricordare che in caso di prestazione medico-chirurgica opera sempre di regola, accanto alla responsabilità contrattuale, anche quella extracontrattuale per il rispetto dei valori tutelati della salute e della vita a prescindere da precostituiti obblighi contrattuali.
La differenza tra i casi di responsabilità risiede anche nell’applicazione di regole diverse per gli aspetti ad esempio della prescrizione dell’azione.
È inoltre il caso di ricordare che la professione medica rientra nella categoria codicistica delle professioni intellettuali con la connaturata prestazione che è d’opera intellettuale, regolata dall’art. 2230 e ss. c.c. e svolta anche secondo forme organizzative da sempre ispirate dall’affermazione di principi solidaristici, quindi esercenti una funzione pubblica.
In ultimo, occorre rappresentare come la prestazione medica (contrattualmente o non contrattualmente precostituita che sia) consista in un’obbligazione di mezzi e non di risultato, per la quale il medico non può garantire la guarigione, impegnandosi piuttosto ad utilizzare tutti i mezzi scientifici più idonei per il raggiungimento del risultato favorevole al paziente.
Ma come detto il possibile fallimento di una terapia, l’esito infausto della malattia sono effetti non automaticamente ricollegabili all’attività del medico in mancanza della prova di un nesso che causalmente o concausalmente ricolleghi queste o altre nefaste circostanze ad una condotta professionale colposa.
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